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FALCONE E BORSELLINO SONO STATI UCCISI A MILANO – STRAGE DI STATO?

venerdì 01st, Aprile 2022 / 18:49 Written by

Nel trentennale di “Mani Pulite” e del vile eccidio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, degli agenti di scorta (Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo), di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta (Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli), a distanza di oltre 52 anni dalla prima Strage di Stato (P.zza Fontana), pubblichiamo alcuni stralci di una interessante intervista ad Alfio Caruso – Milano ordina: “Uccidete Borsellino”, rilasciata nel 2010 al blog delle stelle, in cui lo scrittore siciliano pone inquietanti interrogativi, tutt’oggi, attuali, rimasti senza risposte. Dalla sparizione della famosa “agenda rossa” in cui Borsellino segnava tutto, al ruolo dei servizi segreti, ai mandanti, sino alle rivelazioni dei pentiti e a chi ha veramente giovato fermare le indagini a tutto campo sulle connivenze Stato-mafia-massoneria, sulla vasta corruzione politico-affaristico-giudiziaria e sulle piste dei soldi che portavano alle grandi aziende del nord e ai conti cifrati svizzeri, dove da sempre pecunia non olet.

Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Milano.

La mafia è stato il braccio, altri lo hanno armato. Il numero di testimonianze, di pentiti, di indizi che, regolarmente, indicano nella politica e nell’imprenditoria l’origine dei delitti di Capaci e di via D’Amelio potrebbero riempire intere enciclopedie. Cui prodest? Alla mafia non sembra. Da Riina, a Brusca, ai fratelli Graviano il delitto Borsellino è costato il carcere a vita. I giudici al cimitero e i mafiosi in carcere. E gli altri?

I mandanti dove sono? Nessun politico, deputato, senatore, ministro è finito in galera per i due omicidi più eccellenti della Repubblica. Eppure i loro nomi emergono senza sosta, come l’acqua da un catino bucato, una verità che non si può fermare. Troppi ne sono a conoscenza e troppo pochi ne hanno goduto i benefici. Alfio Caruso spiega nel suo inquietante libro: “Milano ordina: uccidete Borsellino” le connessioni tra imprenditori rispettati del Nord, capitali di sangue della mafia e la corsa contro il tempo di Borsellino.

Il gemellaggio Milano-Palermo
Mi chiamo Alfio Caruso e ho scritto un libro che si intitola: “Milano ordina uccidete Borsellino” in cui si racconta come la strage di Via d’Amelio nella quale morirono il Procuratore aggiunto di Palermo e 5 poliziotti di scorta sia strettamente collegata alla strage di Capaci in cui furono sterminati Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti di scorta e tutte e due queste mattanze vennero preordinate e compiute per impedire a Falcone e a Borsellino di puntare a Milano perché Falcone aveva capito e aveva quindi trasmesso a Borsellino questa sua idea, che la grande mafia siciliana faceva sì gli affari e i soldi in Sicilia e nel resto del mondo, ma poi investiva i propri capitali e li moltiplicava grazie a una rete di insospettabili soci e alleati che aveva a Milano.
Falcone viene ucciso poche settimane dopo aver pronunciato una frase fatidica: “la mafia è entrata in Borsa” e non era la prima volta che Falcone lo affermava, l’aveva già detto nel 1984 quando si era accorto che uno dei principali boss mafiosi rinviati a giudizio nel maxiprocesso, Salvatore Buscemi, il capo mandamento di Passo di Rigano e dell’Uditore, per evitare che la propria società di calcestruzzi, che si chiamava Anonima Calcestruzzi Palermo fosse confiscata, aveva creato una vendita fittizia alla Ferruzzi Holding e quindi da quel momento incomincia una ragnatela di intensi rapporti tra il Buscemi e la Ferruzzi Holding che fa sì che da un lato la Ferruzzi abbia il monopolio del calcestruzzo in Sicilia, e dall’altro lato sia i Buscemi sia altre famiglie mafiose riescono a riciclare con le banche e le finanziarie nei paradisi fiscali miliardi su miliardi. Ma Falcone aveva anche ripetuto paradossalmente la frase: “la mafia è entrata in Borsa” in un convegno del 1991 a Castel Utveggio, di cui avrete sentito parlare e che forse oltre a ospitare una base clandestina del SIS (Servizio segreto civile), forse è stato il luogo da cui hanno azionato il telecomando per far esplodere il tritolo in Via d’Amelio. Falcone aveva deciso di puntare su Milano e di su tutte le connessioni che ormai lui conosceva e ovviamente è lecito pensare che avesse messo a parte di questo progetto l’amico del cuore, il fratello di tutte le sue battaglie, che era Paolo Borsellino, conseguentemente un minuto dopo la strage di Capaci l’altro obiettivo da colpire è Paolo Borsellino.

Paolo Borsellino e i legami tra imprese del Nord e la mafia
Borsellino in quei 53 giorni che lo separano dalla sua sorte, si era dato molto da fare, aveva compiuto dei passi che avevano inquietato i suoi carnefici, perché Borsellino il 25 giugno incontra segretamente il colonnello dei Carabinieri Mori e il capitano De Donno, in una caserma a Palermo e chiede a loro notizie particolareggiate sul dossier che avevano da poco consegnato alla Procura di Palermo che si chiamava: “Mafia e appalti“ e in questo dossier figuravano i rapporti che erano stati ricostruiti, ma chiede anche conto di un’altra inchiesta condotta dal Ros dei Carabinieri a Milano, quella che va sotto il nome di: “Duomo connection” e che aveva visto l’esordio, se vogliamo, sulle scene nel mitico Capitano Ultimo, l’allora Capitano De Sapio e era stata un’inchiesta condotta da Ilda Boccassini. Quest’ultima aveva anche parlato a Falcone perché tra i due c’era un grande rapporto professionale di stima e di affetto.
Quindi Borsellino chiede ai Ros di entrare a conoscenza di ogni dettaglio, ma Borsellino aveva capito che la regia unica degli appalti italiani era Palermo e ce lo racconta Di Pietro, perché Borsellino, rivela a Di Pietro che è vero che Milano è tangentopoli, la città delle tangenti, ma gli dice anche che esiste una cabina unica di regia per tutti gli appalti in Italia e questa cabina unica di regia è in Sicilia.
Il 29 giugno del 1992, il giorno di San Pietro e San Paolo, il giorno in cui Borsellino festeggiava l’onomastico, riceve a casa sua Fabio Salomone che è un giovane sostituto procuratore di Agrigento (n.d.r.: poi insediatosi a Brescia) che ha molto collaborato sia con lui, sia con Falcone in parecchie indagini, si chiudono nello studio, addirittura Borsellino fa uscire il giovane Ingroia che era il suo pupillo, il suo allievo prediletto, con Ingroia era stato già a Marsala dove Borsellino aveva svolto le funzioni di Procuratore Capo. Si chiude nello studio con Salomone e parlano di tante cose, noi abbiamo soltanto ovviamente la versione di Salomone, crediamo a lui che dice che avevano parlato delle inchieste in corso, però Salomone è anche il fratello di Filippo Salomone che scopriremo essere il re degli appalti in Sicilia e grande amico di Pacini Battaglia, il re degli appalti in tutta Italia e uno dei grandi imputati di tangentopoli. (n.d.r.: il banchiere italo-svizzero depositario dei conti segreti dell’E.N.I.).
Quindi Borsellino cominciava a diventare una presenza sempre più inquietante, per coloro che avevano impedito a Falcone di arrivare a Milano e adesso dovevano impedirlo a Borsellino. Quel giorno Borsellino dà anche un’intervista a Gianluca Di Feo, inviato de Il Corriere della Sera e spiega a Di Feo l’importanza di un arresto compiuto poche settimane prima a Milano, quello di Pino Lottusi, titolare di una finanziaria, che per 10 anni aveva riciclato il danaro sporco di tutte le congreghe malavitose del pianeta.
Borsellino dice a Di Feo: Lottusi ha gestito il principale business interplanetario degli anni 80, facile immaginare quale possa essere stata la reazione di quanti, il 30 giugno, leggendo quell’intervista a Milano, avevano avuto un’ulteriore conferma sulla intelligenza da parte di Borsellino di quanto era in atto e di quanto era soprattutto avvenuto, perché poi scopriremo che le società di Lottusi erano molto collegate e in affari con una multinazionale, con una grande casa farmaceutica, con un famosissimo finanziere e anche con alcuni uomini politici.

Milano ordina: “Uccidete Borsellino” 
Borsellino è pronto per portare a compimento l’opera di Falcone, però Borsellino sa, come racconta lui stesso alla moglie e a un amico fidato in quei giorni, che è arrivato il tritolo per lui. Sa che la sua è una corsa contro la morte, spera soltanto di poter fare in fretta, ma non gli lasceranno questo tempo. Quello che oggi sappiamo stava già scritto da anni in anni in inchieste, in atti di tribunali, in sentenze di rinvio a giudizio, in testimonianze rese in Tribunale, mancavano soltanto dei tasselli utili per completare questo mosaico e questi tasselli sono stati forniti dalle dichiarazioni di Spatuzza, quest’ultimo cosa si racconta? Ci racconta che lui ha rubato la 126 che poi fu imbottita di tritolo e l’ha consegnata al capo del suo mandamento che si chiamava Mangano, un omonimo di Vittorio Mangano, questo si chiama Nino Mangano e c’era con Mangano un estraneo e per di più poi Spatuzza ci dice che in 18 anni nessuno ha mai saputo dentro Cosa Nostra, chi azionò il telecomando della strage in Via d’Amelio e dove era situato l’uomo con il telecomando in mano.
Spatuzza ci ha anche raccontato che era tutto pronto per uccidere Falcone a Roma, che lui aveva portato le armi, che la mafia, facendo la posta a Falcone, era andata a Roma, lo squadrone dei killer con Messina Danaro, Grigoli, lo stesso Spatuzza, avevano scoperto che Falcone andava da solo, disarmato ogni sera a cena in un ristorante di Campo dei Fiori, La Carbonaia e quindi sarebbe stato facilissimo coglierlo alla sprovvista, ma poi Riina aveva stabilito che bisognasse uccidere Falcone, come dice Provenzano, bisognava montare quel popò di spettacolino a Capaci. Riina sapeva benissimo che la mafia avrebbe avuto un contraccolpo micidiale dopo un attentato eversivo come quello di Capaci, però evidentemente convinto di poter riscuotere un incasso superiore ai guasti che ne sarebbero derivati.
Lo stesso avviene per D’Amelio, è un’altra strage dal chiaro sapore eversivo, ma evidentemente viene compiuta perché i guadagni saranno superiori. Riina con la strage di via D’Amelio ha, come ha detto suo cognato Bagarella, lo stesso ruolo che ebbe Ponzio Pilato nella crocifissione del Cristo, non disse né sì né no, se ne lavò le mani, ha raccontato. Da quello che ci racconta Spatuzza possiamo immaginare che siano stati i Graviano a chiedere a Riina il permesso di compiere questa strage e i Graviano erano gli uomini legati a Milano, gli uomini della mafia che più avevano contatti e rapporti a Milano. Borsellino quindi non viene ucciso, come peraltro scrive benissimo la sentenza d’appello del Borsellino bis già nel 2002, perché salta la trattativa tra Vito Ciancimino e il Colonnello Mori perché i Carabinieri respingono inizialmente il papello proposto da Riina, quello è un falso obiettivo. Borsellino viene ucciso per impedirgli di arrivare a Milano e era lo stesso motivo per cui è stato ucciso Falcone e mi sembra che continuare a parlare del fallimento della trattativa sia soltanto l’ennesimo tentativo di nascondere i veri motivi delle due terrificanti stragi del 1992.  https://www.libreriauniversitaria.it/milano-ordina-uccidete-borsellino-caruso/libro/9788830427686

A distanza di trent’anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio a Palermo e di oltre 52 anni dalla prima strage di Stato a Milano (P.zza Fontana) che ha aperto l’infinita sequela di stragi che hanno insanguinato l’Italia, siamo convinti non possa essere più tollerabile per qualsiasi sincero democratico che di quei tremendi ed oscuri fatti che hanno arrestato il corso della Giustizia e della democrazia restino ignoti i mandanti.

Giovanni Falcone aveva fatto saltare il sistema corruttivo nell’assegnazione dei processi in Cassazione. Cambiò le “regole del gioco”, con l’introduzione della turnazione, evitando così che il maxi processo finisse assegnato al solito giudice Corrado Carnevale (cd. “ammazza-sentenze”), Presidente della I sezione penale, poi assolto dai suoi sodali.

Ancor prima che ne fosse rivelata l’esistenza, Giovanni Falcone stava indagando sulla struttura segreta Gladio-Stay Behind. Cioè  l’organizzazione paramilitare che si scoprirà essere stata manovrata dalla C.I.A.

Nei diari di Giovanni Falcone pubblicati post mortem sul quotidiano  “Il Sole 24 Ore” emerge tutta l’amarezza del giudice per i continui “bastoni tra le ruote” che gli venivano frapposti ogni giorno dai colleghi nello svolgimento delle sue attività di procuratore aggiunto con delega di tutte le inchieste su Cosa nostra.
Ulteriori tracce si sarebbero potute trovare negli appunti di Giovanni Falcone se non fosse che qualcuno (certo non di Cosa nostra) riuscì a manomettere i supporti informatici del suo p.c. e nell’agenda elettronica che si trovavano nel suo ufficio presso il Ministero della Giustizia. Dati portati alla luce grazie ai consulenti tecnici Gioacchino Genchi e Luciano Petrini i quali analizzarono i supporti informatici, rendendo dichiarazioni testimoniali davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, nel processo del 1996, in cui parlarono di memorie cancellate, di file modificati e rieditati nel periodo successivo al 23 maggio. E coincidenza vuole che tra i documenti “rieditati” vi fossero anche le sintesi delle schede di Gladio. Possibile, si domanda “Antimafia 2000“, che Falcone, le cui intuizioni sul fenomeno mafioso sono pionieristiche e più che mai attuali, avesse già allora intuito l’esistenza di un’associazione occulta e segreta pilotata da “manine” straniere, operante nel nostro Paese in maniera illegale? Possibile che proprio quell’indagine segreta potesse essere uno dei motivi che hanno portato alla condanna a morte del magistrato?

I vari processi, le inchieste e molteplici testimonianze hanno fatto emergere in maniera ormai lampante che vi furono mandanti esterni dietro ad ogni strage di Stato e su questi misteri, interrogativi ed inquietanti verità taciute e nascoste chiediamo sia fatta piena luce. Come affermava Paolo Borsellino: “A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato“. Se veramente vogliamo incamminarci sulla strada della democrazia, restituire credibilità alle istituzioni e cambiare il volto della Giustizia questa domanda per onestà intellettuale dovrebbero iniziare a farsela tutti i magistrati italiani e gli operatori di giustizia.

In questo processo di rinnovamento istituzionale e di urgente risveglio delle coscienze intorpidite da pratiche corporative e di oscuri interessi personali di coloro che dovrebbero tutelare i diritti, garantire la giustizia e il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, intendiamo coinvolgere l’intera Società civile, ricordando le toccanti parole di Paolo Borsellino:  “La lotta alla mafia [..] non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

Pietro Palau Giovannetti (sociologo)

Presidente Movimento per la Giustizia Robin Hood – Avvocati senza Frontiere

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