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LIBERARE TUTTI! PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI!

lunedì 09th, Marzo 2020 / 21:29 Written by

di Pietro Palau Giovannetti

Il regime islamico dell’Iran si è mostrato più ragionevole e democratico del Governo Italiano. 

Lo scorso 3 marzo le autorità della Repubblica iraniana hanno disposto il trasferimento di 54 mila detenuti agli arresti domiciliari per evitare i rischi di diffusione del contagio da coronavirus (Covid-19) nelle carceri. Lo ha annunciato il portavoce della magistratura di Teheran, Gholamhossein Esmaili, a cui ha fatto seguito l’immediato ordine firmato dal responsabile della magistratura Ebrahim Raisi.

In Italia, invece, nonostante il sovraffollamento e i molteplici appelli alla ragionevolezza provenienti dalla Società civile, intellettuali, politici e magistrati, volti all’adozione di misure alternative e di una generale amnistia o indulto, si è giunti a spingere la popolazione detenuta all’esasperazione e alla rivolta, dopo l’annuncio da parte del nostro Governo (democratico) di sospendere le visite dei parenti fino a giugno per l’allarme coronavirus.  E’ questa la miccia che ha fatto scattare la rivolta da nord a sud nelle carceri italiane, che rischia a breve di concludersi in un bagno di sangue.

Mentre il regime degli Ayatollah, definito come nemico delle libertà,  svuota le proprie prigioni, compresi gli oppositori politici, l’unica forma di prevenzione che sono stati in grado di concepire i nostri più liberali governanti è la repressione violenta, soffocando con migliaia di agenti in tenuta antisommossa le legittime proteste di chi già sta morendo nelle carceri tra le più fatiscenti d’Europa. Ed è così che le patrie galere rischiano di trasformarsi in polveriere e lazzareti dove gli internati vengono condannati a morte, senza possibilità di scampo. Scrive un ex detenuto: “Li si priva di ogni forma di socializzazione, proprio quando hanno maturato la consapevolezza che il ritrovarsi col virus e le strutture mediche già al collasso, significa che nessuno si curerà di loro. Così alla mancanza di programmi di reinserimento, formazione, integrazione, disintossicazione, si aggiunge questa forma di tortura psicologica che è l’ansia di morire senza nemmeno poter salutare i famigliari”. Nelle carceri non si parla d’altro che di questo. Così scrivono alcuni detenuti: “Non accendo più neppure la televisione, non fanno altro che parlare del coronavirus. E qui hanno messo la seconda branda a quasi tutte le celle e da un paio di giorni hanno messo le brande nelle salette della socialità, per i nuovi giunti, perché nessuno li vuole in cella per paura che siano contagiati. A me personalmente non fa paura questo di virus perché prima muoio e prima esco dal carcere, ma vedrai che sfortunato come sono non lo prenderò.” Ed ancora: “Se qui prima era un cimitero, adesso lo è ancora di più: persino i volontari, insieme al personale civile, sono spariti. Dicono che lo fanno per proteggerci. Quello stronzo dell’avvocato ha detto alla mia famiglia che non mi è venuto a trovare per paura di essere contagiato, ma a noi nessuno pensa”.

E’ vero! Nessuno può capire cosa significhi sopravvivere nelle patrie galere, anche in tempi normali, chiusi in gabbie, come bestie, in promiscuità, fino a 7/8 esseri umani per cella, in spazi angusti e spesso fatiscenti, con solo un paio d’ore d’aria al giorno, senza possibilità di incontrare i propri cari né telefonare se non 10 minuti alla settimana. Figuriamoci ora! Questa è una sorta di condanna a morte che il Governo italiano ha inteso sommariamente decretare nei confronti di oltre 61.000 detenuti, lasciandoli a languire in ambienti già di per sé malsani e portatori di molteplici malattie, dove ora già si sta diffondendo il virus Covid-19, il più veloce della storia, paragonabile ad una moderna pestilenza.

Nel carcere di Opera a Milano si sono già registrati i primi casi positivi al Coronavirus. A detta di vari osservatori ed esperti situazioni analoghe sarebbero presenti in diverse altre carceri italiane, ma i dati non vengono resi noti o non vengono eseguiti i tamponi.

Mariolina Panasiti, magistrato già applicata al Tribunale di Sorveglianza (ora Presidente della IX sezione penale del Tribunale di Milano), alcuni giorni fa, intervenendo su “Il Riformista”, in un articolo dal titolo “Contro Coronavirus nelle carceri servono amnistia e indulto, persino l’Iran ha disposto moratoria“, scrive: “Ecco, però, che la amnistia consentirebbe di non celebrare tutta una predeterminata tipologia di procedimenti, producendo l’effetto di evitare l’accesso ai palazzi di giustizia di imputati e testimoni per reati di contenuta gravità, per i quali è prevedibile la irrogazione di pene da scontare prevalentemente in esecuzione esterna. Amnistia ed indulto potrebbero produrre l’effetto di decongestionare così anche gli Uffici della Esecuzione Penale Esterna (noti con l’acronimo U.E.P.E.) per la gestione di esecuzione di pene brevi in forma alternativa, esplicando una efficacia più ampia ed ulteriore rispetto alla attuale fase epidemica, contribuendo utilmente a mitigare tutte quelle ricadute sui detti Uffici prodottesi negli ultimi anni in conseguenza di tutta una serie ulteriore di competenze attribuite per effetto delle iniziative legislative (riguardanti la cognizione, ovvero la fase esecutiva) volte a pervenire ad uno sfoltimento della popolazione carceraria, implemento di competenze realizzato, prevalentemente, ad organici invariati. Non è questa certo la sede per affrontare dettagliatamente la tematica dell’amnistia, ma solo per rammentare che dalla data della emanazione dell’ultimo provvedimento di clemenza (D.P.R. 12.4.1990 n. 75), alla reale funzione deflattiva dell’istituto hanno supplito altri istituti, quali la messa alla prova (il cui “carico” è finito con il gravare sull’UEPE), e la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Oltre, eventualmente, in taluni casi, la prescrizione dei reati, per effetto del decorso del tempo, qualora siano risultati superati i tempi per la celebrazione del giudizio”.

Dobbiamo convenire che, a distanza di 30 anni, un governo che si richiami a principi liberal-democratici, qual’è quello italiano, in una situazione di emergenza sanitaria nazionale e planetaria, quale quella che stiamo affrontando e che richiede l’unità di tutti i consociati e degli Stati membri delle Nazioni Unite, richiede di affrontare in maniera seria e indifferibile la tematica dell’urgente adozione di una misura di clemenza.  

L’associazione “Nessuno tocchi Caino” chiede una moratoria dell’esecuzione penale.

Il Partito Radicale denuncia che “il carcere è in una situazione di gravissimo sovraffollamento con 61.230 detenuti per 47.231 posti effettivi disponibili. Questi dati connotano il carcere come un luogo di concentramento e segregazione sociale, di per sé fuori legge, dove ogni rischio, anche quello sanitario, è amplificato. Se si chiudono scuole o stadi per evitare che troppe persone stiano insieme, allora la principale misura da adottare anche in carcere deve essere quella di una moratoria immediata dell’esecuzione penale volta a ridurre drasticamente i numeri della popolazione carceraria con provvedimenti che potrebbero riguardare ad esempio i casi di detenzione per brevi pene o residui di pena da espiare. In Italia ci sono 8.682 detenuti che hanno un residuo pena da scontare inferiore ai 12 mesi e altri 8.146 che devono scontare pene tra 1 e due anni. Per D’Elia, Bernardini e Zamparutti non è infatti chiudendo ai colloqui, alle attività esterne o alle misure alternative che si può fronteggiare il rischio di epidemia in carcere. Anzi, la sospensione di norme fondamentali dell’ordinamento penitenziario aggrava ulteriormente la situazione strutturale di illegalità nell’esecuzione della pena nel nostro Paese. Moratoria dell’esecuzione penale e provvedimenti come amnistia ed indulto si confermano essere le uniche misure idonee a riportare le carceri e la giustizia nell’alveo dello Stato di Diritto, unica alternativa a tutte le emergenze. La crisi legata al coronavirus conferma quanto la soluzione della costruzione di nuove carceri – anziché il sistematico ricorso alle misure alternative – sia assolutamente inadeguata ad affrontare i problemi legati al carcere e alla recidiva.

In tale contesto, è indubbio che l’emergenza Covid-19 stia pesantemente affliggendo le già disumane condizioni detentive della popolazione carceraria. Claudio Paterniti, ricercatore di Antigone, spiega come il contenimento di un virus in carcere sia più complesso che nel mondo esterno. “Il carcere è storicamente un luogo in cui gli agenti patogeni si propagano facilmente”. In Italia tra la popolazione generale si stima ad esempio un tasso di tubercolosi latente pari all’1-2%, mentre nelle strutture penitenziarie il dato sale vertiginosamente al 25-30%. Differenze simili riguardano anche altre patologie come l’epatite C o l’hiv. Questi dati, con riferimento al coronavirus, rischiano quindi di diventare il pretesto per un’erosione sproporzionata dei diritti dei detenuti, innescando una conflittualità crescente negli istituti penitenziari italiani, la cui risposta non è certo mandare l’esercito come ha preannunciato il Presidente Conte.

Gli stessi sindacati di polizia giudicano inadeguate le misure adottate negli ultimi giorni dal Governo. “Non va sottovalutata l’insufficiente dotazione nelle carceri lombarde, venete, piemontesi ed emiliane di personale medico e sanitario. Bloccare ogni contatto con l’esterno è una priorità da collegare a una campagna di vera prevenzione e di comunicazione”, ha denunciato Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato polizia penitenziaria. Ma, un inasprimento ulteriore delle misure rischia però di accentuare la già fragile condizione dei detenuti.

C’è chi pensa che blindare le carceri come scatole di tonno, vietando o limitando i colloqui dei detenuti coi familiari e volontari o bloccando i permessi premio e il lavoro esterno siano misure utili che possano servire a fermare il coronavirus, senza tener conto che il contagio può entrare e uscire dal carcere con il personale medico, le guardie carcerarie e tutti gli addetti ai lavori. Anche chi scrive sui blog farneticazioni alla Salvini/Di Maio  che i detenuti possiamo anche lasciarli morire e buttare via la chiave,  non realizzano nella loro ceca disumanità che le prigioni si trasformeranno presto in lazzareti di massa, come nei tempi più nel medio evo, diventando a loro volta perniciosi focolai per l’intera società esterna.  Non sarebbe più saggio e degno di un Paese civile concedere un’amnistia per reati lievi e con pene residue non superiori a 4 anni o, quantomeno seguire l’esempio del regime Iraniano che, in una situazione meno grave della nostra, ha disposto il temporaneo rilascio di circa 70.000 detenuti con una pena da scontare non superiore ai 5 anni? Tra cui Nazanin Zaghari-Ratcliffe, detenuta dal 2016 con l’accusa di aver «cospirato contro il governo iraniano».

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