15 settembre 1993. A Palermo, nel quartiere di Brancaccio, con un solo colpo alla nuca, Padre Pino Puglisi viene ucciso dalla mafia.
Quando i suoi quattro sicari arrivano è a pochi passi da casa sua, nel giorno del suo 56° compleanno. Non si stupisce, non sembra sconvolto. Sorride.
Fino a quel giorno molti non hanno mai sentito parlare di lui. Non è uno dei cosiddetti “preti antimafia”, non ha mai cercato visibilità, clamore; non è mai stato in prima fila nei cortei agitando striscioni carichi di verità miste a luoghi comuni sulla mafia, sui cittadini collusi, sulla bella faccia nascosta di una Sicilia che non trova la forza di rinascere.
“3P” – come lo chiamavano in molti per via di quella divertente allitterazione in Padre Pino Puglisi – è un insegnante di religione, un parroco come tanti, il figlio di un calzolaio, cresciuto nello stesso quartiere covo della mafia che gli darà la morte.
In molti non sospettavano l’importanza straordinaria della sua opera.
Dal giorno del suo assassinio comincia a svelarsi quella “piccola rivoluzione” ignorata da tanti ma non dalla mafia.
Padre Pino aveva capito di non poter minimamente ledere quel tessuto intriso di cultura dell’illegalità con i grandi proclami, le teorie, le belle parole. La sua innata passione per i giovani gli aveva permesso di intuire che l’unico modo di scalfire l’onnipotenza della mafia in quel territorio era quello di volgere lo sguardo ai più piccoli, ai figli incolpevoli dei criminali, che non conoscono altra realtà se non la legge di ”Cosa nostra”, le sue barbariche norme, il suo potere.
Sono bambini addestrati da sempre, con gli stessi rituali, a divenire nuova linfa, nuovi potenti o semplice manovalanza.
La sfida alla mafia comincia così, sottraendole un bene prezioso: i bambini.
Sui ragazzi di strada si posa lo sguardo di “3P”, il suo sorriso. Padre Pino è un uomo esile, piccolo, è un “parrinu”, lontano anni luce da quegli uomini che hanno imparato a guardare con ammirazione e rispetto. Eppure qualcosa comincia a legare le loro vite. Quel prete li ascolta, li chiama per nome, li accoglie, impara a conoscerne la storia, le paure, i sogni. Il suo è un vero e proprio metodo pedagogico che si rivela efficace. I bambini cominciano ad apprendere che esistono regole, princìpi, valori, cominciano a sentirsi amati. Con un lavoro faticoso e paziente Padre Pino oppone la gratuità dei suoi gesti alla logica del potere e del denaro, offre una presenza che diventa “segno”, testimonianza, che apre a nuove prospettive di vita, che fa scorgere altre strade oltre a quella del furto, dello spaccio, del servile rispetto per i potenti e gli uomini d’onore. Chiede con insistenza al Comune che i luoghi simbolo del degrado, gli scantinati dove si svolge il mercato dello spaccio e della prostituzione, vengano trasformati in una scuola per i suoi ragazzi.
Ad aiutarlo non ci sono istituzioni, partiti, gerarchie ecclesiastiche.
Nel suo lavoro quotidiano lo affiancano i volontari del Centro Padre nostro, il Comitato intercondominiale di Via Hazon, il vice parroco, poche suore, talvolta i suoi allievi di liceo, figli della Palermo perbene, che ha trascinato, con la sua passione, in quel posto malfamato a scoprire un altro volto della loro città.
Sono anni terribili per Palermo, anni in cui la mafia sente sul collo il fiato corto di uomini come Falcone e Borsellino che, con la loro integrità e tenacia, corrodono inesorabilmente la sua invulnerabilità. Sono gli anni delle bombe, delle stragi, di una società che scopre di potersi ribellare.
La mafia non può tollerare che Padre Puglisi agisca all’interno del suo ventre, che le strappi i bambini, che predichi contro il crimine e l’illegalità sull’altare. E’ una Chiesa diversa quella che lui propone. Una Chiesa che non protegge i latitanti, che non ama i fuochi pirotecnici al termine delle processioni religiose.
E’ una Chiesa che non piace alla mafia.
L’irritazione cresce e con essa l’isolamento attorno a Padre Pino. Occorre fermarlo. Nel quartiere si diffondono le voci sulla presenza di poliziotti infiltrati all’interno del Centro Padre nostro. Arrivano le intimidazioni ma “3P” prosegue con fermezza nel suo lavoro. La solitudine, le sconfitte, la stanchezza non lo fermano. Prova a fermarlo, con un colpo alla nuca, Salvatore Grigoli, mentre lui sta sorridendo.
Difficile dire se la mafia sia riuscita nel suo intento. La vicenda di Padre Puglisi procede oltre la soglia di quel giorno. Dopo la sua morte molte persone lo hanno “incontrato” e questo incontro ha cambiato le loro vite. La Chiesa ha avviato il processo per la beatificazione, la giustizia ha accertato la responsabilità dei fratelli Graviano come mandanti del delitto; Salvatore Grigoli è divenuto collaboratore di giustizia ed ha iniziato un cammino di conversione. Si è assistito ad un proliferare di iniziative, Brancaccio ha avuto la sua scuola ma molto altro è rimasto incompiuto.
Bianca Stancanelli, giornalista e autrice di un’appassionata biografia di Don Puglisi, indica forse il rischio più grande “Gli eroi solitari ci piacciono perché ci assolvono: la nostra normalità si compiace del loro eroismo, vede nella loro sconfitta il migliore dei motivi per astenersi non dal coraggio soltanto, ma da ogni gesto di umana resistenza”.
Qual è oggi il ruolo che siamo disposti a dare a questa insolita figura di prete e di uomo? Un “martire”, un “santino”? Il suo abito sacerdotale aiuta in quest’opera di emarginazione. Il tempo, scorrendo, se ne rende complice.
Aldilà di tutto questo resta lo sguardo profondo di “3P” che, silenziosamente, senza clamore, continua a offrire nuove prospettive, nuovi scenari.
MARIACONCETTA MONTAGNA