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Le Misure di sicurezza e il fantasma degli O.P.G.

mercoledì 13th, Gennaio 2021 / 18:01 Written by

Cosa è realmente cambiato dai tempi di Lombroso ad oggi?

“Tutto cambia, perché nulla cambi”, così scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo “Gattopardo”. Quello che ha coinvolto le misure di sicurezza è stato un percorso lungo, di apparente riforma normativa, di faticoso cambiamento (o tentato cambiamento) culturale, che, però, stenta ancora a dare risultati concreti.

Nell’immaginario collettivo i manicomi sono sempre stati luoghi di terrore, di degrado e abbandono, di torture fisiche e psicologiche. E la realtà, purtroppo, non se ne discostava poi tanto.

Ad Aversa, nella casa penale per invalidi, nasceva la prima “sezione per maniaci”. Gli ospiti erano considerati allo stesso tempo pazzi e criminali: troppo pazzi per stare in carcere e troppo criminali per un manicomio civile. Per anni in questi manicomi giudiziari si è consumato l’inferno, di fronte all’indifferenza della gente e delle istituzioni.

Solo nel 1974, quando una donna, perfettamente sana, muore bruciata viva mentre veniva sottoposta a coercizione nel suo letto, l’attenzione dell’opinione pubblica ritorna a concentrarsi sui manicomi giudiziari e sulla loro discutibile gestione. «Ci legavano come Cristo in Croce. Per noi piangevano anche i mattoni». Sono le ultime parole pronunciate da Antonia Bernardini, prima di morire per le ustioni riportate a seguito dell’incendio del letto di contenzione sul quale era legata da quarantatré giorni, nell’infame lager manicomiale giudiziario di Pozzuoli, dove era internata da quindici mesi a seguito di un banale diverbio, in attesa di un processo che non si svolgerà mai.

Questo condusse, un anno dopo, ad una riforma dell’Ordinamento Penitenziario, attuata con la L. 354/1975, che trasformava i manicomi criminali in Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Agli O.P.G. venivano destinati gli autori di reati ritenuti non imputabili, perché incapaci di intendere e di volere, ma considerati, comunque, socialmente pericolosi. L’O.P.G., mediante l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva, svolgeva, dunque, una duplice funzione: di custodia, per la difesa sociale; e di cura e trattamento, per il reinserimento del soggetto nella società.

L’intento del legislatore era quello di cambiare la visione dell’internato: da persona che doveva essere principalmente punita, a malato, che doveva essere, prima di tutto, curato.

Il punto più alto di questo processo di riforma veniva raggiunto, però, nel 1978, con la Legge Basaglia[1], che segnava la dismissione dei manicomi civili e la nascita dei Servizi di salute mentale territoriale.

L’obiettivo, o forse l’illusione, di Basaglia di convincere che “il matto non è di per sé anche pericoloso” era, però, molto più difficile quando l’oggetto del discorso diventava il presunto “matto-criminale”, come può venire, tutt’oggi, considerato chiunque possa suo malgrado imbattersi in qualche banale diverbio, come la povera signora Antonia, oltre 50 anni fa o, più recentemente Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, lasciato morire, senza cibo né acqua, legato mani e piedi ad un letto di contenzione, per oltre 84 ore, sino ai tanti altri casi più o meno noti della storia della malasanità e malagiustizia italiana dal secolo scorso ad oggi.

Invero, in quest’atmosfera di apparente innovazione normativa, di fatto, cambiavano solo i nomi, perché le pratiche rimanevano le medesime. Negli O.P.G., infatti, i “folli-rei” venivano rinchiusi in condizioni drammatiche: isolamento, contenzioni abituali, condizioni igieniche precarie, disattendendo, pertanto, tutte le aspettative iniziali.

La prima svolta epocale si ebbe nel 2003, quando la Corte Costituzionale[2] apriva alla possibilità di applicare misure meno restrittive dell’Ospedale Psichiatrico, valorizzando, ad esempio, lo strumento alternativo della libertà vigilata, applicabile sia in cliniche appositamente dedicate o comunità terapeutiche, oppure, ove possibile, anche in famiglia e nel proprio domicilio.

Nel 2008, la denuncia sulle degradanti condizioni di vita in cui versavano i malati all’interno degli O.P.G., effettuata dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, faceva emergere la non più trascurabile necessità di un cambio di rotta.

Il primo passo fu il trasferimento, mediante uno strumento legislativo che negli ultimi tempi abbiamo imparato a conoscere molto bene, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 1° aprile 2008[3], delle competenze di medicina penitenziaria dal Ministero di Grazia e Giustizia a quello della Sanità, con la “regionalizzazione” degli Ospedali Psichiatrici.

Tale processo di superamento degli O.P.G., innescato dal succitato DPCM, trova il suo perfezionamento nell’istituzione di strutture alternative, le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), introdotte con L. 17 febbraio 2012, n. 9.

La Legge che ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari è, in realtà, la L. 22 dicembre 2011, n. 211 (c.d. svuota-carceri)[4], scaturita da un’inchiesta condotta da una Commissione parlamentare sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli O.P.G, che il Presidente Napolitano, dopo aver visionato le immagini, definì “di estremo orrore”.

Le nuove disposizioni introdotte fissavano il termine per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici al 31 marzo 2015, con la conseguente entrata in funzione effettiva delle REMS.

La logica che sta alla base di queste nuove strutture è quella riabilitativa: le REMS, infatti, hanno natura prettamente medico-sanitaria e sono demandate ad un’unica, fondamentale funzione: la gestione sanitaria dei pazienti.

Tale cambiamento nasce con lo scopo, nobile ma difficile da realizzare, di umanizzare lo sconto della pena nelle persone già “condannate” da un disturbo psichiatrico.

Il problema, però, è la visione che la società ha di queste persone, spesso dimenticando che si tratta di essere umani: la malattia mentale rappresenta, ancora oggi purtroppo, uno stigma. In una bellissima canzone presentata a Sanremo nel 2007, Simone Cristicchi racconta il dramma dei manicomi e ci fa riflettere sul concetto di pazzia, sottolineando, proprio, l’incapacità di collocare queste persone in un contesto senza che esse ne disturbino la quiete:I matti sono apostoli di un Dio che non li vuole”.

Percezione che viene ancor più aggravata se il matto in questione si è reso anche responsabile di un reato. In tal caso, prevale sempre la paura, che spinge alla neutralizzazione di questi soggetti, piuttosto che alla loro rieducazione e risocializzazione.

E, dopo quasi 6 anni dalla chiusura degli O.P.G., la situazione non pare affatto cambiata, come, tuttora, emerge dall’abusivo ricorso all’applicazione delle misure di sicurezza personali e all’internamento nelle cd. “case di cura e custodia”, a volte veri e propri lager psichiatrici, dove a cambiare e solo la denominazione ma non la sostanza. 

In Italia, purtroppo, vige ancora una certa confusione e carenza di cultura giuridica, spesso anche da parte dei magistrati e operatori sanitari,  rispetto alla necessità di applicare misure di sicurezza personali a soggetti affetti da disturbi psichiatrici o, presunti tali, che si siano resi responsabili di reati.

Il “sistema del doppio binario” che ha ottenuto cittadinanza giuridica grazie al Codice Rocco e che, per anni, ha alimentato gli O.P.G., è sopravvissuto a tutte le proposte di riforma del codice penale[5].

Pertanto, accade di sovente che soggetti responsabili di reati, anche di lieve entità, subiscano lunghi periodi di detenzione, prima in carcere e, poi, nelle REMS o nelle C.T.A, – a volte con “fine pena mai” -, a causa di arcaici criteri di valutazione della pericolosità sociale, appartenenti ai secoli scorsi.

Infatti, la “pericolosità sociale” rappresenta, tutt’oggi, il perno intorno al quale ruota la perizia (unico strumento valutativo attualmente riconosciuto e applicato, ma sicuramente non esaustivo e sufficiente)[6] e, quindi, il destino di un reo infermo o seminfermo di mente; e questo fa emergere la concezione obsoleta di malattia mentale ancora vigente nel nostro Paese.

Opinione che si riflette, altresì, nei giudizi di giudici e psichiatri, che persistono nel voler difendere ad oltranza,  l’ordine sociale e neutralizzare la presunta pericolosità di questi individui, come “Hiroo Onoda, il soldato giapponese che, a guerra finita, continuava a combattere il fantasma del nemico nelle foreste filippine”[7] e, perciò, esulano dal considerare “elementi di fatto e condizioni oggettive”[8], ed effettuano valutazioni fondate, solo, su meri teoremi e congetture o generici sospetti e timori privi di riscontri oggettivi.

Stiamo assistendo, purtroppo, ad uno svuotamento concettuale della pericolosità sociale, che si riempie di percezioni errate dettate da pregiudizi che, come detto, non trovano fondamento in alcun elemento concreto. Tale giudizio, infatti, è in larga parte soggettivo e arbitrario, in quanto non è possibile produrre dati scientificamente solidi per certificare che un soggetto, in futuro, potrà commettere di nuovo un reato. Molte volte si utilizza l’esasperazione di tali soggetti, dovuta alla loro condizione detentiva, per valutare positivamente la pericolosità sociale e prorogarne, senza soluzione di continuità, la misura affittita, spingendoli sino al punto di compiere gesti autolesionistici (ingerire lamette, tagliarsi i polsi, ingerire ammoniaca, impiccarsi in cella, etc.), preferendo morire piuttosto che continuare a condurre una vita disperata, privati di ogni affetto e libertà di cura.

Non di rado si è assistito a quello che, nel tempo, è stato definito “ergastolo bianco”: ipotesi in cui a una condanna a pena anche lieve segue, in caso di una presunta “persistenza” della pericolosità sociale, un internamento tendenzialmente senza fine, come in vari casi, anche di recente denunciati da più parti, da ultimo, quello di Famoso Salvatore, internato da quasi 5 anni, dopo avere scontato l’intera pena, pari ad un 15 mesi, parte in carcere e parte in casa di cura e custodia, prima a Catania e poi a Siracusa, perchè ritenuto socialmente pericoloso, in quanto si ostinerebbe a denunciare di essere vittima di abusi giudiziari.

E, nonostante gli artt.1-ter e 1-quater della L. 81/2014 hanno cercato di porre fine a questo fenomeno, introducendo un preciso limite di tempo alle misure di sicurezza, fissato nella pena edittale massima per il reato commesso (escludendo l’ergastolo), in realtà, la percezione dell’ingiusta detenzione rende, comunque, il periodo di reclusione una sorta di “ergastolo ostativo”, che preclude qualunque beneficio premiale e la prospettiva di un futuro degno.

Dunque, malgrado tutte le buone intenzioni del legislatore, non sono rinvenibili, almeno finora, evidenti mutamenti in materia. E servirà a ben poco cambiare il nome, le competenze, le responsabilità, se non lavoriamo, prima di tutto, sulla nostra cultura, se non abbandoniamo quella logora concezione che abbiamo delle persone affette da disturbi psichici; idea che, ormai, possiamo definire antistorica, perchè continua a promulgare l’infondato binomio malattia mentale-pericolosità e, anche, antigiuridica, poiché presenta tutti i vizi di un giudizio prognostico e incerto, che fornisce le stesse garanzie di un “tiro a dadi”.

A cura dello staff di Avvocati senza Frontiere 

NOTE:

[1] Legge 13 maggio 1978, n. 180 “Norme per gli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, che successivamente confluirà nella legge n. 833/1978 di riforma del Sistema Sanitario Nazionale. Prende il nome dal suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia

[2] Corte Costituzionale, sentenza 18 luglio 2003, n. 253: dichiara illegittimo l’art. 222 c.p. nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure all’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.

[3] Dal mese di ottobre del 2010 il personale sanitario che aveva un rapporto contrattuale con il Ministero della Giustizia lo ha traslato alle ASL di competenza. La responsabilità organizzativa nei confronti rei attinti da misure di sicurezza viene, dunque, attribuita al Servizio Sanitario Nazionale.

[4] L’applicazione di tale norma è stata rimandata, con proroga, per ben due volte, giungendo fino al D.L. 31 marzo 2014, n.52, convertito nella L. n. 81/2014, recante disposizioni urgenti in materia di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

[5] La Commissione di riforma Grosso aveva proposto la sostituzione della “pericolosità sociale” con il “bisogno di cura”, mettendo, dunque, al centro le esigenze terapeutiche del paziente.

[6] Cass., sez. V, n. 43631/2017

[7] “La perizia psichiatrica è una profezia” di Peppe Dell’Acqua e Silvia D’Autilia, pubblicata da SosSanità su Forum Salute Mentale.

[8] v. Cass. pen., V, 8.01.2019, n. 27656; Corte Cost., 27.02.2019, n.24. Ma anche: Corte EDU, sentenza 13.06.2019, n. 77633 e Sentenza De Tommaso c. Italia, Corte EDU, Grande Camera, sentenza 23.02.2017

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