di Marina Montagna
Forse in Italia non molti sanno chi è Aung San Suu Kyi, la “farfalla d’acciaio” birmana, come la chiamano quelli che la amano per la sua straordinaria forza interiore celata dietro un aspetto fragile e gentile.
Certo nel 1991 Aung San Suu Kyi ha vinto il premio Nobel per la pace ma sul palcoscenico della storia i riflettori sono puntati su quanti detengono il potere – politico, economico, finanziario o militare – e possono decidere le sorti di interi popoli, non su quanti senza clamore, giorno dopo giorno, si battono per la democrazia e per la libertà, mettendo in gioco la propria vita e rischiando di perderla. Non eroi ma uomini e donne normali, spesso sconosciuti, ancora più spesso ridotti al silenzio da regimi brutali che non esitano a calpestare i più elementari diritti umani e a reprimere con la violenza ogni tentativo di ribellione e di cambiamento dello status quo. Aung San Suu Kyi è sicuramente una di questi.
Nata a Rangoon nel 1945, pur essendo figlia di uno dei principali artefici dell’indipendenza birmana assassinato nel 1947, inizialmente non sembra aver ereditato una particolare vocazione politica in senso stretto. Infatti, dopo aver lavorato per alcuni anni presso la segreteria delle Nazioni unite a New York, nel 1972 sposa uno studioso inglese, Michael Aris, e si trasferisce nel Regno Unito dove per un lungo periodo conduce una esistenza tranquilla accanto al marito e ai due figli, Alexander e Kim. Nel 1988 però la svolta: per assistere la madre gravemente malata torna in Birmania dove già dal 1962, a seguito di un colpo di stato, si era insediata al potere una giunta militare che con la nazionalizzazione delle industrie, la soppressione dei partiti politici e la proibizione del libero scambio aveva portato il Paese all’isolamento dal resto del mondo.
E proprio il 1988 è un anno drammaticamente importante per la storia birmana; a seguito della rivolta studentesca e di una feroce guerra civile causa di migliaia di morti, viene proclamata la legge marziale. Nasce allora la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) e Aung San Suu Kyi ne diventa il leader e il Segretario generale.
Nonostante l’insuccesso dell’insurrezione popolare, spietatamente soffocata nel sangue, le proteste del 1988 aprono la strada per libere elezioni che si tengono, per la prima volta in 30 anni, nel 1990. Intellettuali, operai e masse di contadini oppressi e affamati intravedono finalmente una speranza di rinascita per quella terra – un tempo ricca, colta e tollerante – sprofondata nella miseria e nella dittatura. Il NLD, guidato da Aung San Suu Kyi, trionfa alle elezioni generali assicurandosi l’82% dei voti ma la giunta militare si rifiuta di cedere il potere ed arresta Aung San Suu Kyi, che stante ai risultati delle urne dovrebbe ricoprire la carica di legittimo Presidente della Birmania, e altri componenti dell’NLD.
Inizia così la estenuante detenzione di Aung San Suu Kyi: rimessa in libertà nel 1995, viene nuovamente arrestata nel 2000, riliberata nel 2002 e nuovamente arrestata nel 2003. Da allora Aung San Suu Kyi si trova agli arresti domiciliari, senza alcun contatto con il mondo esterno. Quando nel 1999 il prof. Michael Aris si ammala di cancro la giunta militare gli impedisce di entrare in Birmania per incontrare Aung San Suun Kyi ma concede a quest’ultima la possibilità di lasciare il Paese, costringendola a fare una scelta lacerante: accettare l’esilio pur di rivedere il marito che si andava spegnendo, divorato da un male dal quale non aveva scampo, o restare in patria per continuare tenacemente la battaglia non violenta per la libertà del suo popolo. Aung San Suu Kyi decide di rimanere. Il prof. Aris morirà così lontano dalla moglie, fedele alla promessa, fattale prima del matrimonio, di non frapporsi mai tra lei e i suoi ideali.
E’ importante sottolineare che Aung San Suu Kyi non è accusata di alcun crimine, di alcun reato ma le leggi vigenti in Birmania consentono di condannare – arbitrariamente, senza preventivo giudizio – alla detenzione fino a cinque anni, ulteriormente prorogabili di anno in anno, anche chi è solo genericamente considerato pericoloso “per la sicurezza e la sovranità dello Stato”.
Oggi in Birmania, sono migliaia i prigionieri “politici” che dopo essere stati sottoposti a maltrattamenti e torture, ove quest’ultime non abbiano avuto esiti mortali, vengono lasciati in condizioni sub-umane a marcire nelle carceri, talvolta addirittura nelle celle destinate ai cani dell’esercito, perché colpevoli di aver fondato organismi studenteschi o di aver distribuito volantini o di aver partecipato a pacifiche manifestazioni di protesta o semplicemente di aver scritto un articolo o una poesia.
Basti pensare che quando nel 2000 venne pubblicato il cd degli U2 “ Is all that you can’t leave behind”, contenente il brano “Walk on” dedicato a Aung San Suu Kyi, il regime non solo censurò e mise al bando il disco ma addirittura stabilì la pena della galera da tre a vent’anni per chiunque lo avesse venduto, acquistato o ascoltato.
“E se il buio dovesse dividerci / e se il tuo cuore di vetro dovesse rompersi / e se per un secondo tu dovessi voltarti indietro / oh no, sii forte. Vai avanti. Continua a camminare.”
Questi i versi di Bono che tanto in allarme misero i generali!
Oggi in Birmania, che i depliants turistici descrivono come un Paese “in cui tradizioni, arte, religione e bellezze naturali si fondono in un fascino unico al mondo”, sono illegali i telefoni cellulari e internet mentre serve una speciale autorizzazione delle autorità militari per possedere un fax, una fotocopiatrice o un’antenna satellitare.
Oggi in Birmania, nel paese dei templi da favola, della più preziosa giada e dei rubini color “sangue di piccione”, il regime, che ha concentrato nelle proprie mani tutte le ricchezze del Paese, fa sistematicamente ricorso al lavoro forzato di uomini, donne e bambini sequestrati e tenuti sotto la costante minaccia di violenze, di stupri “punitivi” e persino di morte. Come documentato dalla Commissione dell’ONU sui diritti umani e da Amnesty international nei suoi rapporti, il “lavoro forzato è stato ed tuttora utilizzato per lo sviluppo delle infrastrutture di base, come le strade, per costruire luoghi turistici come alberghi lussuosi o campi da golf. I soldati arrivano nei villaggi ed esigono che una persona per famiglia vada a lavorare. Questa non riceve né salario né cibo. Sarà uccisa se tenterà di fuggire. Bambini di nove anni sono stati costretti a lavorare in queste condizioni”.
L’area più colpita dalla violenza dei militari è quella sud-orientale; perciò ogni anno migliaia di esuli si muovono verso il confine con la Thailandia, dove sono stati allestiti dei campi profughi. I rifugiati hanno comunque scarse possibilità di migliorare le loro condizioni di vita; la maggior parte della popolazione è estenuata da fame e malnutrizione e molti bambini per sopravvivere vengono costretti alla prostituzione. In questo stato le persone diventano facile bersaglio di malattie come malaria, epatite ed AIDS.
Nonostante tutto questo Aung San Suu Kyi non è mai caduta nella trappola dell’odio per i suoi avversari ma ha continuato la sua lotta non violenta affermando che “la vera rivoluzione è quella dello spirito” ed ha esortato il suo popolo a non arrendersi perché “non è il potere che corrompe, ma la paura. La paura di perdere il potere corrompe quelli che lo detengono. La paura della frusta, quelli che la subiscono”.
Se potessimo esprimere la nostra solidarietà ad Aung San Suu Kyi e a quanti condividono la sua stessa sorte, ci piacerebbe far nostre le parole di Bono e dire ad ognuno di loro: sii forte, vai avanti! Walk on!