Sono passati quasi 50 anni. Erano circa le 16,30 del 12/12/1969, quando un ordigno di elevata potenza esplode nel cuore di Milano, all’interno del salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, dove erano affluiti una moltitudine di coltivatori diretti e piccoli imprenditori agricoli. Gli effetti furono devastanti: il pavimento del salone fu squarciato e 17 persone restarono uccise e altre 100 ferite. Per la sua estrema gravità e rilevanza politica, la strage di Piazza Fontana è divenuta negli anni il simbolo dello stragismo di Stato e di una giustizia protesa a coprire i crimini dei poteri occulti che controllano le istituzioni democratiche. Ovvero il momento più alto di un progetto eversivo concepito ed attuato anche attraverso una serie di altre stragi rimaste impunite (Piazza della Loggia e treno Italicus nel 1974), volte a fomentare e utilizzare il disordine e la paura degli italiani per sbocchi di tipo autoritario. Tutto ciò con il sostegno, come riportato nella Relazione della Commissione Stragi, da «accordi collusivi con apparati istituzionali italiani e stranieri». L’esplosivo utilizzato per la strage di P.zza Fontana, occorre ricordare, proveniva, infatti, da un deposito Nato, come accertato nell’inchiesta del giudice Guido Salvini, durante la stagione processuale dal 2001 al 2005.
Le indagini sociologiche, sulla base dei dati forniti dallo stesso Ministero dell’Interno, riportano che ben l’83% degli atti di violenza compiuti in Italia dal 1969 al 1975 sono di marca neofascista. Da qui hanno origine gli anni di piombo e quella che verrà definita dagli osservatori inglesi dell’Observer, la “strategia della tensione”, che giunge fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso, e seppure in termini diversi viene oggi riproposta dal cosiddetto “governo del cambiamento”, attraverso l’incitamento all’odio razziale e alla paura del diverso.
Il depistaggio delle indagini sulla strage di Piazza Fontana si orientò da subito sulla cd. “pista rossa”, colpendo, in particolare, gli anarchici, in quanto gruppi isolati e privi di difesa, nei cui confronti fu montata una feroce campagna stampa denigratoria, a seguito della quale venne ingiustamente arrestato Pietro Valpreda, con la falsa accusa di essere implicato nella strage, sulla base della testimonianza di un tassista che affermava di averlo portato in piazza Fontana.
La sera dei funerali delle vittime della strage di Stato, una altro anarchico, Giuseppe Pinelli, secondo la versione ufficiale “precipitò” dal terzo piano della Questura di Milano, durante un brutale interrogatorio, morendo sul colpo. Le indagini non furono mai in grado di stabilire le circostanze della sua morte. Da una parte la Questura sostenne che si era trattato di suicidio, dovuto alla mancanza di un alibi credibile, mentre i gruppi dell’estrema sinistra avviarono una controinchiesta collettiva, scambiandosi informazioni, raccolta in famoso testo dal titolo “la Strage di Stato”, accusando della morte dell’anarchico Pinelli la “polizia assassina”.
Al riguardo, vale la pena ricordare che le bombe del 12 dicembre si inseriscono in un clima di forte conflittualità politica e sociale, contraddistinta dal cd. “autunno caldo” del 1969, e fanno seguito alle lotte del 1968, che avevano saldato in un fronte comune studenti e lavoratori, orientandoli verso importanti conquiste sociali, quali lo Statuto dei lavoratori, ovvero verso un cambiamento epocale dei diritti, spostando gli equilibri di governo.
Dopo la “pista anarchica”, le indagini si concentrarono sul gruppo padovano di estrema destra, Ordine Nuovo, che vedeva coinvolti esponenti di spicco dei servizi segreti, che verranno, poi, tutti assolti per insufficienza di prove dall’imputazione di strage, con sentenza definitiva della Cassazione, nel gennaio 1987. Stessa ingrata sorte per gli ulteriori processi definitivamente conclusi nel 2005, con la conferma da parte della Cassazione dell’assoluzione per insufficienza o contraddittorietà delle prove, che la Corte d’Assise di Appello di Milano aveva pronunciato circa un anno prima a carico di esponenti appartenenti ad Ordine Nuovo di Venezia-Mestre.
Tuttavia, come ricostruito dal Giudice Salvini, tutte le sentenze su Piazza Fontana anche quelle assolutorie, portano alla conclusione che fu una formazione di estrema destra, e cioè Ordine Nuovo, a organizzare gli attentati del 12 dicembre. Anche nei processi conclusisi con sentenze di assoluzione per i singoli imputati è stato comunque ricostruito il vero movente delle bombe: spingere l’allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza nel Paese, in modo da facilitare l’insediamento di un governo autoritario. Come accertato anche dalla Commissione Parlamentare Stragi, erano state seriamente progettate in quegli anni, anche in concomitanza con la strage, delle ipotesi golpiste per frenare le conquiste sindacali e la crescita delle sinistre, viste come il “pericolo comunista”, ma la risposta popolare rese improponibili quei piani.
Oggi, 12/12/2018, ricordando anche la Giornata Mondiale dei Diritti Umani del 10/12/2018, che a distanza di 70 anni rimangono del tutto inattuati e meri “diritti di carta” non vogliamo parlare solamente di vergognosi depistaggi, processi aggiustati e assurde sentenze, ma vogliamo semplicemente ricordare le vittime di tutte le stragi rimaste impunite, unitamente ai loro famigliari. E, in particolare, Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda e i loro compagni, accusati solo in quanto anarchici e vittime sacrificali di aberranti logiche di regime.
La storia di Giuseppe Pinelli.
Dopo la strage di Piazza Fontana, gli inquirenti procedettero al fermo di oltre 150 militanti anarchici e di gruppi di estrema sinistra, tra cui Giuseppe Pinelli, effettuando centinaia di perquisizioni. In particolare, focalizzano l’attenzione sul gruppo del “Ponte della Ghisolfa”, fondato il 1 maggio 1968. Noto circolo anarchico milanese impegnato nelle lotte operaie e studentesche. Giuseppe Pinelli, era un semplice ferroviere e uno dei suoi principali animatori. Dietro invito del commissario Calabresi, si reca spontaneamente presso la Questura di Milano con il suo motorino, dove incontra un centinaio di anarchici che verranno tutti trasferiti al carcere di San Vittore. Pinelli, invece, viene immotivatamente trattenuto. Il suo trattenimento è infatti palesemente illegale, in quanto la validità del fermo di P.G. disposto nei suoi confronti era già scaduta da 24 ore, come affermato dalla sentenza del Tribunale di Milano (27 ottobre 1975), e la notte del 15 dicembre viene sottoposto ad un brutale interrogatorio in una stanza posta al quarto piano, da cui vola “inspiegabilmente” fuori dalla finestra, morendo sul colpo. Giuseppe Pinelli muore lasciando moglie e figlie, che non riceveranno mai giustizia né alcuna forma di risarcimento.
Tra le cause della sua morte si è parlato di omicidio volontariato, ipotesi fermamente respinta dalla Questura di Milano, che ha sempre parlato di suicidio. La prima inchiesta giudiziaria si è conclusa con l’archiviazione. Successivamente, a seguito di un’istanza della vedova Licia Pinelli, è stata aperta una nuova inchiesta condotta dal Giudice istruttore, Gerardo D’Ambrosio, che terminò con una scandalosa sentenza del Tribunale di Milano, facendo propria la tesi del “malore”. (Sentenza 27/10/1975). Sentenza di proscioglimento del tutto ipocrita, unica nella giurisprudenza italiana, per cui non si trattò né di omicidio né di suicidio. Giuseppe Pinelli, in spregio alle più elementari leggi della fisica e della medicina legale, causa un «malore attivo» fu preda, secondo questa farneticante ricostruzione, di un’«improvvisa alterazione del centro di equilibrio», che innescando «movimenti scoordinati», lo proiettò letteralmente fuori dalla finestra. Un fenomeno senza precedenti, mai più verificatosi in nessun altro luogo e in nessun altro Paese del mondo. Ma solo quella notte, a quell’ora, in quell’oscuro ufficio della Questura di Milano, vittima un ferroviere, illegalmente trattenuto, in quanto “reo” di essere anarchico.
La storia di Pietro Valpreda
Qual è l’anarchico? La foto è una ricostruzione fatta nel 1974 durante il processo di Catanzaro, del famigerato “riconoscimento” di Valpreda da parte del tassista Rolandi, che lo avrebbe portato “sul luogo del delitto”. Rolandi (che aveva già visto la foto di Valpreda, cosa che avrebbe dovuto rendere nullo il riconoscimento) “riconosce” Valpreda. Alla domanda di Valpreda: “ma mi hai guardato bene?”, Rolandi risponde: “Beh, se non è lui, qui non c’è “…
Nel frattempo, il gionalista del Corsera Giorgio Zicari (a libro paga del SID ed iscritto alla P2) aveva scritto della testimonianza di Rolandi il 14/12/1969, cioé il giorno prima che Rolandi ufficialmente si presentasse in Questura per la prima volta. Sappiamo come finì la storia. Valpreda subì un ingiusto processo, basato su una falsa testimonianza e restò anni in carcere, per ben 1101 giorni (oltre 3 anni), per poi risultare completamente innocente. Nessuno dei fedeli “servitori dello Stato” che gli rovinarono la vita per sempre ha mai chiesto scusa.
All’epoca dei fatti Valpreda aveva solo 36 anni e l’unica colpa era quella di frequentare il circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”. Nell’autunno del 1969 si trasferisce a Roma, dove frequenta il circolo anarchico “Bakunin”, da cui ritenendolo troppo moderato, alcuni militanti si distaccano per fondare il “22 marzo” nelle cui fila sono presenti agenti infiltrati di pubblica sicurezza e noti estremisti di destra, nonchè informatori del Servizi segreti (S.I.D.). Pietro Valpreda viene convocato al Palazzo di Giustizia di Roma per un normale interrogarlo. Valpreda, non temendo particolari conseguenze, la mattina del 15/12/1969, si reca all’incontro insieme a sua zia, Sig.ra Rachele Torri, ma all’uscita dal palazzo viene tratto in arresto. Il giorno dopo a Roma, Valpreda incontra il giudice Vittorio Occorsio che gli contesta formalmente di essere l’autore della strage di Piazza Fontana, sulla base della mera testimonianza del tassista Rolandi.
Valpreda rimase come ricordato nel carcere di Regina Coeli per più di 3 anni, con l’eccezione di 10 giorni presso il Policlinico della capitale, per motivi di salute e sotto scorta di 100 agenti armati fino al 29/12/1972, quando, insieme ai suoi compagni, fu rimesso in libertà provvisoria per decorrenza dei termini massimi di durata delle misure cautelari. La scarcerazione di Valpreda fu possibile grazie ad una legge ad personam [in questo caso giusta a differenza di altre], la cosiddetta legge Valpreda (legge n. 773 del 15/12/1972), che introdusse limiti alle misure cautelari anche nei casi di reati gravissimi (tra cui la strage),
NEL 1987 la prima sezione della Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, pose fine ad ogni accusa, dopo 18 anni, confermando l’assoluzione per Pietro Valpreda (su conforme richiesta del Procuratore Generale) e per gli altri indagati. Venne riconosciuta, nel frattempo, anche l’innocenza del martire Giuseppe Pinelli. Durante il secondo processo d’appello il sostituto procuratore generale chiese per Valpreda l’assoluzione con formula piena, ma i giudici lo assolsero per insufficienza di prove.
Valpreda scrisse in carcere molte poesie e un diario pubblicati negli anni ’70, assieme all’epistolario, oltre ad altre numerose opere. E’ deceduto all’età di 68 anni dopo l’aggravarsi di un tumore, che lo aveva colpito da tempo. I funerali si svolsero a Milano al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa.
Di queste e altre menzogne è stata nutrita, da subito e per anni, l’opinione pubblica italiana, che è spinta a credere alle fake news della stampa di regime, a dispetto della verità, della logica e della vera Giustizia, ignorando le poche voci libere della Società civile. Tra cui, vale la pena ricordare: “Pinelli. Una finestra sulla strage”, di Camilla Cederna; “Morte accidentale di un anarchico” di Dario Fo e Franca Rame, noto lavoro teatrale uscito nel 1970 e Pier Paolo Pasolini che ebbe il coraggio di scrivere un celebre articolo di denuncia: “Io so“, nel 1974, di cui riportiamo alcuni stralci:
“Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione. Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere”.
Pier Paolo Pasolini
A cura della Redazione di Donne per la Giustizia (postato il 12/12/2018)